Ulaan Bataar, 12 novembre 2025 – Dieci giorni nella steppa mongola, a bordo di un van che sfida le piste sterrate verso il deserto del Gobi, mi hanno insegnato una sola parola in mongolo: “Ochirsukh”, il nome del mio autista. Il viaggio parte dalla capitale, Ulaan Bataar, e si snoda tra pianure senza fine, incontri inattesi e silenzi che sembrano non avere confini. Perché si parte? Per scoprire cosa resta quando si lascia indietro tutto il superfluo.
La lingua, la musica e le storie che animano la steppa
Appena arrivati in Mongolia, la lingua suona come un mistero impossibile da decifrare. Anche dire “grazie” diventa un rompicapo. Ochirsukh sorride, corregge, scherza: “Hai appena detto addio a tutti”, mi dice. Al mio fianco, Uyanga – per tutti Ughi – guida il gruppo con un italiano sorprendentemente fluente. Ha studiato a Urbino, spinta dalla musica italiana che passava dalla tv sovietica negli anni Ottanta: “C’era anche Sanremo”, racconta, “adoravo Pupo e i Ricchi e Poveri”. Così, tra le note di Ricchi e Poveri e le hit russe degli anni Ottanta, scorrono le ore verso sud.
Nel Gobi, tra vuoto e incontri essenziali
Al ritorno, la domanda più comune è semplice: “Cosa siete andati a vedere?” La risposta, invece, non è così scontata. Nel Gobi non cerchi monumenti o scorci da cartolina. Si va per capire come si vive dove la natura è dura e la lontananza è una compagnia quotidiana. “Sono andato per vedere com’è”, provo a spiegare al vicino di casa. “Per capire come si vive togliendo invece che aggiungendo”. Ma solo attraversando la steppa si afferra davvero il senso.
Dalla città al nulla: la vita nomade prende il sopravvento
Appena lasci Ulaan Bataar, i grattacieli e i palazzi di stampo sovietico scompaiono in fretta. Dopo mezza giornata di viaggio, finiscono anche le stazioni di servizio – posti improbabili dove si trovano patatine, superalcolici e coltelli. Poi l’asfalto lascia spazio alle piste sterrate, il segnale del telefono sparisce. Rimangono solo i pastori nomadi con le loro gher: tende di feltro che resistono da secoli alle escursioni termiche, dai -35 ai +30 gradi.
La Mongolia è grande cinque volte l’Italia, conta 3,2 milioni di abitanti e circa 60 milioni di animali. Le mandrie di bovini e pecore si muovono come onde sulla steppa, le capre producono cachemire pregiato, i cammelli battriani osservano distratti. I cavalli corrono liberi: simbolo dello spirito mongolo, discendenti diretti del takhi selvatico.
Sulle orme di Gengis Khan e dei pastori nomadi
Durante il viaggio si legge della storia di Gengis Khan (Chinggis Khaan), il condottiero che qui è una vera leggenda. La sua figura prende vita tra le pagine della guida Polaris, distribuita dal tour operator Mistral: sempre in prima linea nelle battaglie, primo a scrivere un codice di leggi. La steppa sembra fatta apposta per uomini nomadi e cavalli liberi.
Le notti si passano nei campi tendati sotto un cielo stellato, tra cene condivise (carne, verdure, buuz) e partite a shagai – un antico gioco con ossa di pecora. Il vento porta con sé ricordi e sogni: “Forse è il vento”, sussurra una compagna di stanza nella gher. Qui gli elementi sembrano conoscere meglio di noi il nostro destino.
Il Gobi tra rocce, dune e fossili
Ogni giorno riserva una sorpresa. A Baga Gazrin Chuluu, tra rocce granitiche e altarini votivi (“ovoo”), si respira un’atmosfera sospesa. A Yol Am, una valle verde attraversata da un fiume gelido, l’acqua è la più pura che abbia mai toccato. Più a sud, le dune di Khongor – 150 chilometri di sabbia morbida – regalano tramonti indimenticabili. Il gruppo sale a piedi fino in cima: silenzio assoluto, rotto solo dalle risate delle viaggiatrici coreane che scendono in bob.
A Bayanzag, un canyon di roccia rossa, sono stati scoperti fossili di dinosauro come il Pittacosaurus. Il monastero di Ongii ricorda le ferite delle distruzioni sovietiche; quello di Karakorum (oggi Karakhorim), antica capitale di Gengis Khan, domina una valle verde attraversata da mandrie.
L’anima nomade: incontri che lasciano il segno
I veri protagonisti sono i pastori nomadi del Gobi. “Gli inseguitori di nuvole”, li chiamavano anticamente. Vivono senza sprechi, con una tenda riscaldata dallo sterco degli animali e un pannello solare per il cellulare. Come Temüjin, diciassettenne tornato alla vita nomade dopo gli studi: nella sua gher offre biscotti tipici e kumis (latte di giumenta fermentato), risponde timido alle domande dei viaggiatori.
Un viaggio organizzato tra semplicità e sorprese quotidiane
Il tour “L’impero di Gengis Khan” organizzato da Mistral parte ogni sabato dall’Italia tra maggio e ottobre (da 3.795 euro in categoria standard). Si vola su Ulaan Bataar via Pechino; dopo una notte in albergo nella capitale, il viaggio continua tra piste polverose e campi tendati. Le gher non sono lussuose, ma accoglienti; i pasti soddisfano anche chi ha esigenze particolari.
Ogni giorno regala nuove scoperte: passeggiate nella steppa, visite a luoghi isolati, incontri con chi vive ancora seguendo ritmi antichi. La Mongolia resta nel cuore per la sua capacità di togliere tutto ciò che è superfluo – lasciando spazio solo a ciò che conta davvero.